Le Olimpiadi di Pyeongchang e la crisi coreana

I XXIII Giochi Olimpici invernali sono previsti dal 9 al 25 febbraio 2018 – tra poco meno di sei mesi – a Pyeongchang, in Corea del Sud. È fin troppo prevedibile che, comunque vada, la crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord in corso da mesi e che sta raggiungendo il suo apice in questi giorni, rischi di avere serie ripercussioni sullo svolgimento dei Giochi e sulla loro stessa possibilità di tenersi. Le zone in cui avranno luogo le gare distano circa cento chilometri dalla zona demilitarizzata che separa le due Coree, e la provincia storica di Gangwon, di cui la contea di Pyeongchang fa parte, è divisa quasi esattamente a metà tra il nord e il sud. Se può sembrare futile preoccuparsi delle Olimpiadi invernali mentre si profila una crisi politico-militare di grandi dimensioni che rischia di destabilizzare tutta la regione, e forse il mondo, è forse utile ricordare come le Olimpiadi abbiano rappresentato, per tutto il XX secolo e oltre, uno specchio della situazione geopolitica mondiale, a volte anticipando evoluzioni destinate a manifestarsi su più larga scala, altre volte subendone le tendenze (rischiando anche di venire travolte), ma in generale riuscendo ad adattarvisi, fino ad imporsi, tra le altre cose, come un palcoscenico politico e diplomatico di prima importanza. A tutto ciò bisogna aggiungere che, quella di Pyeongchang sarà la prima di tre edizioni consecutive dei Giochi (assieme a quelli estivi di Tokyo 2020 e a quelli invernali di Pechino 2022) che si terranno in Estremo Oriente, un’area che, attualmente, appare come una delle più instabili e ‘a rischio’ del globo. 

Pyeongchang 2018, un’Olimpiade ‘a rischio’

In una situazione in cui tutto può cambiare da un momento all’altro, è ovviamente difficile, e velleitario, chiedersi che cosa succederà tra sei mesi. È tuttavia possibile porsi qualche domanda: il Cio e le autorità sudcoreane (appoggiate ovviamente dai loro alleati, in primis gli Usa) saranno in grado di organizzare Olimpiadi sicure al 100%, proteggendo atleti, dirigenti e spettatori da eventuali minacce provenienti dal nord? Se i Giochi di Pyeongchang avranno luogo, dovremo aspettarci defezioni, di singoli atleti o di nazioni intere, motivate dall’incertezza della situazione? E, in definitiva, le prossime Olimpiadi invernali potranno tenersi senza alcun rischio, o il Cio farebbe meglio a prevedere soluzioni alternative, o addirittura a considerare l’ipotesi di rinunciare all’appuntamento del 2018? Tanto per ricordarlo, se i Giochi dovessero essere annullati, non sarebbe certo un fatto irrilevante: nella storia, solo cinque edizioni delle Olimpiadi (tre estive e due invernali) sono state annullate, nel 1916, 1940 e 1944, in occasione delle due Guerre Mondiali. È per questo motivo che il Cio e il comitato organizzatore dei Giochi ostentano tranquillità. Sul sito Web dei Giochi [1] il countdown verso Pyeongchang 2018 avanza regolarmente, e lo stesso sito, senza sorpresa, non riporta alcun cenno alla situazione. Dal Comitato Olimpico Internazionale, invece, come sempre le notizie trapelano con il contagocce e necessitano di essere interpretate. Nei giorni scorsi, un non meglio identificato “portavoce” ha dichiarato alla Reuters che il Cio sta “monitorando la situazione”, ma che i preparativi per i Giochi di Pyeongchang “proseguono” [2]. Alcuni media hanno però suggerito che la tensione nella penisola coreana sarà all’ordine del giorno della prossima sessione del Cio, prevista a Lima, in Perù, in settembre [3]. La laconicità delle dichiarazioni del Cio contrasta con la sicurezza ostentata appena due mesi fa dal suo presidente, Thomas Bach, a margine del suo primo incontro con il neoeletto presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in. In quell’occasione, Bach si era detto sicuro, non soltanto che i Giochi di Pyeongchang avrebbero avuto luogo, ma addirittura che avrebbero potuto “contribuire fortemente alla cooperazione e alla riconciliazione tra le due Coree e alla pace nella penisola coreana” [4]. Se, come sembra ragionevole prevedere, i membri del Cio discuteranno della questione coreana a Lima, quali potrebbero essere le opzioni in campo? Un annullamento puro e semplice dei Giochi sembra difficile. Come ho già ricordato, sarebbe un’opzione che ha dei precedenti storici ‘pesanti’. Per non parlare delle ricadute economiche e di immagine di una tale eventualità, che sono difficili da prevedere (ha provato a farlo, a grandi linee, il sito Around the Rings [5]). Anche l’opzione di spostare i Giochi in un’altra sede o ad un’altra data sembra difficilmente praticabile. Poche volte le Olimpiadi sono state spostate da una sede già stabilita; l’ultima è stata nel 1976, quando, dopo la rinuncia di Denver, in soli tre anni gli austriaci organizzarono un’Olimpiade invernale ad Innsbruck, negli stessi impianti di dodici anni prima. Ma, dal punto di vista della storia olimpica, il 1976 era un’altra era. Ad Innsbruck c’erano circa un terzo delle prove e degli atleti previsti a Pyeongchang, e le stime più attendibili calcolano che quei Giochi siano costati l’equivalente di 118 milioni di dollari attuali [6], mentre il costo stimato per le Olimpiadi di Pyeongchang è di 12,6 miliardi di dollari, oltre cento volte di più [7]. Semplicemente, in un’epoca in cui una candidatura olimpica si prepara circa un decennio prima dello svolgimento dei Giochi, e l’assegnazione avviene sette anni prima, lo spostamento delle Olimpiadi non è una soluzione praticabile. Il Cio fatica già a sufficienza a trovare candidati seri che vogliano accollarsi i costi, economici e in termini di popolarità, di organizzare i Giochi (è il motivo principale della doppia assegnazione delle Olimpiadi del 2024 e 2028 a Parigi e Los Angeles); nessuna città e nessuna nazione vorranno prendersi la responsabilità di organizzare un’Olimpiade con così poco anticipo. L’opzione che il Cio ha è una sola: perseverare nell’organizzazione dei Giochi in Corea del Sud e sperare che nulla di enorme venga a turbarne lo svolgimento prima o durante. Il rischio è, ovviamente, che, se i Giochi si faranno, si registri una partecipazione ridotta. Se il rischio di un boicottaggio (se non da parte della Corea del Nord, di cui parlerò sotto) sembra remoto, a seconda dell’evolversi della situazione singoli atleti o addirittura intere nazioni potrebbero decidere di disertare la Corea del Sud visti i rischi della situazione. Un’Olimpiade ‘ridotta’ non è certo una prospettiva allettante per il Cio, che è già chiamato a risolvere altri problemi, come la questione della partecipazione della Russia, paese ospitante e grande vincitore delle ultime Olimpiadi invernali, ma che, da allora, è coinvolta nel più grande scandalo di doping di stato che la storia dei Giochi abbia conosciuto (o perlomeno che sia venuto alla luce) [8].

Le Olimpiadi come strumento di pace?

Se, quindi, i Giochi del 2018, come è praticamente certo, si terranno, e si terranno a Pyeongchang, quali implicazioni, prospettive e rischi comporteranno? Come ricordato sopra, la retorica ufficiale delle istanze olimpiche, come da tradizione, mostra di credere fortemente nel potere taumaturgico dei Giochi per calmare le tensioni internazionali, promuovere la pace e la tolleranza, e addirittura contribuire allo sviluppo della democrazia e dei diritti umani nei paesi che li ospitano [3, 4]. I fatti, tuttavia, mostrano una realtà più complessa. Solo per prendere qualche esempio recente, la Cina e la Russia non sono più democratiche ora di quanto non fossero prima di ospitare le Olimpiadi, e l’approssimarsi dei Giochi di Rio de Janeiro non ha impedito che scoppiasse una crisi di grandi proporzioni ai vertici della politica brasiliana a poche settimane dal loro inizio. La politica olimpica effettiva, diversa da quella ‘di facciata’, in realtà è soprattutto Realpolitik, e le istanze olimpiche hanno più spesso seguito le evoluzioni geopolitiche piuttosto che anticiparle o addirittura suscitarle. In alcuni casi, è vero, la vetrina dei Giochi può aver accompagnato, o magari accelerato, processi che erano già in atto. È proprio il caso della Corea del Sud, sia per quanto riguarda la creazione di istituzioni democratiche e elezioni libere (le prime ebbero luogo nel dicembre 1987, nove mesi prima dei Giochi di Seul) [9, 10], sia per quanto riguarda il riconoscimento della Repubblica di Corea da parte dei paesi di un blocco socialista sul viale del tramonto, ma che segnò, comunque, il suo ingresso definitivo nel consesso delle nazioni [11, 12]. 
Malgrado la buona volontà, vera o presunta delle istanze olimpiche e degli organizzatori, e la politica di conciliazione con il nord propugnata dal neopresidente Moon Jae-in, è difficile che i Giochi di Pyeongchang possano avere una qualsivoglia influenza sulle relazioni tra le due Coree e, più in generale, sulla situazione internazionale del regime di Pyongyang e sull’attuale crisi politico-militare. In realtà, la posizione della Corea del Nord rispetto ai Giochi di Pyeongchang è tutt’altro che chiara. Attualmente, anche se gli organizzatori affermano che la porta è sempre aperta, nessun atleta del nord (un paese che non è certo una potenza negli sport invernali) si è qualificato per i Giochi, e non si sa se il paese intenda mandare una delegazione a Pyeongchang. Ma l’ipotesi di un boicottaggio non è certo da escludere. Recentemente, si è riaperto il dibattito attorno all’idea che la Corea del Nord co-organizzi alcune gare dei Giochi del 2018. Alcuni media hanno fatto eco alla proposta del ministro dello sport sudcoreano, Do Jong-hwan, che qualche prova di sci si svolgesse a Masikryong, un complesso sciistico da poco creato nel nord [13]. Ma malgrado una blanda disponibilità a trattare da parte delle autorità sportive nordcoreane, non sembra che le discussioni abbiano dato molti frutti, e lo stesso ministro ha ridimensionato la proposta, sostenendo che riguardava soltanto l’uso della località nordcoreana come zona di allenamento [14]. In generale, tuttavia, la proposta sembra assai poco realistica, sia a causa della situazione della Corea del Nord e della complessità della macchina organizzativa olimpica [15], sia pensando al precedente dei Giochi estivi di Seul 1988, di cui parlerò qui sotto. Nella stessa occasione, il ministro ha suggerito l’idea che la squadra di hockey su ghiaccio femminile per i Giochi di Pyeongchang comprenda anche giocatrici della Corea del Nord. Anche in questo caso, è presumibile che l’idea cadrà nel vuoto: da più di cinquant’anni vengono portati avanti, senza alcun successo, tentativi di organizzare delegazioni uniche per le due Coree, alle Olimpiadi o in altre competizioni sportive di rilievo [16]. Appena più realistica sembra la possibilità che la fiamma olimpica faccia tappa nel nord nel suo viaggio da Olimpia a Pyeongchang, anche se si tratterebbe di un atto puramente simbolico, con scarse possibilità di avere una qualsiasi ricaduta pratica. Tuttavia, a un mese e mezzo dall’accensione della torcia, niente sembra essere deciso, e si può sospettare che si tratti ancora una volta di un semplice annuncio di propaganda [17]. 

Le due Coree nella storia olimpica

Lo scetticismo riguardo al fatto che i Giochi di Pyeongchang possano avere un impatto di qualunque tipo sulla relazione tra le due Coree appare giustificato quando si guarda alla storia olimpica dei due paesi. Negli ultimi settantacinque anni, in nessun momento, l’appartenenza comune al movimento olimpico ha facilitato l’avvicinamento tra il nord e il sud. Il comitato olimpico della Repubblica di Corea (nome ufficiale della Corea del Sud) venne riconosciuto dal Cio appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1947 [18]. Quello della Corea del Nord chiese il riconoscimento per la prima volta nel 1956, e venne riconosciuto provvisoriamente l’anno successivo, con la condizione che le due Coree si impegnassero a trovare un accordo simile a quello in corso tra le due Germanie, che dal 1956 al 1964 parteciparono ai Giochi con una delegazione unica, pur avendo due comitati olimpici distinti [19, 20]. Le discussioni andarono avanti qualche anno, sotto l’egida del Cio e svolgendosi sempre in paesi ‘terzi’, ma, di fronte all’intransigenza ed alla scarsa volontà di collaborare delle due parti [21], il Cio fu costretto a rassegnarsi, e nel 1963 – anche dietro la spinta dei comitati olimpici del blocco socialista – riconobbe il secondo comitato olimpico coreano [22]. Per la cronaca, la Corea del Nord fece il suo debutto olimpico ai successivi Giochi invernali di Innsbruck 1964 (dove vinse pure un argento nel pattinaggio veloce), ma disertò le edizioni successive fino al 1972: nel 1964 si ritirò a causa dell’esclusione di alcuni suoi atleti per aver partecipato ai Ganefo, (i “Giochi delle nuove forze emergenti”, una sorta di Olimpiade alternativa organizzata dall’Indonesia con l’appoggio della Cina); nel 1968 si rifiutò di partecipare come “Corea del Nord”, come voleva il Cio, anziché come “Repubblica Democratica Popolare di Corea” [23]. 
Il secondo momento chiave nella storia olimpica delle relazioni tra le due Coree è rappresentato, ovviamente, dai Giochi di Seul del 1988. In un interessante e documentatissimo articolo [11], lo storico Sergey Radchenko ha ricostruito i negoziati che si sono svolti tra i due paesi e il Cio negli anni che hanno preceduto le Olimpiadi di Seul perché alcuni sport fossero spostati al nord, mostrando come, al di là della volontà di facciata di negoziare, ciascuna delle parti cercasse in realtà di screditare l’altra, addossandole l’intera colpa del fallimento della manovra. Tra le altre cose, l’articolo evidenzia il progressivo isolamento che subì la Corea del Nord, allora governata da Kim Il-sung, soprattutto da parte dei paesi del blocco socialista (in primis l’Urss e la Cina), che, come detto, si andavano invece lentamente avvicinando al governo del sud. L’isolamento non riguardò soltanto i tentativi di co-organizzare le gare olimpiche, ma anche un eventuale boicottaggio dei Giochi di Seul, una possibilità che – dopo le edizioni di Mosca 1980 e Los Angeles 1984 – era presa molto sul serio. Alla fine, tuttavia, tra le nazioni di rilievo del blocco comunista, oltre la Corea del Nord, soltanto Cuba boicottò le Olimpiadi del 1988. Partecipando ai Giochi, i paesi socialisti contribuirono a risollevare il movimento olimpico provato da un dodicennio di boicottaggi, e diedero un colpo importante al prestigio internazionale della Corea del Nord, loro alleata. Radchenko lega addirittura, indirettamente, il fallimento delle ambizioni nordcoreane di sfruttare le Olimpiadi di Seul come propaganda a proprio vantaggio alla situazione attuale, quando osserva che l’umiliazione subita accentuò l’isolamento del paese, spingendolo a rafforzare il proprio status di potenza militare nella ricerca di un riconoscimento internazionale. 
Le Olimpiadi di Seul hanno anche segnato la consacrazione della Corea del Sud come nazione olimpica di prima grandezza. In quell'occasione il paese raccolse i frutti di una politica di impulso allo sport di alto livello per promuovere il prestigio nazionale avviata a partire dagli anni ’60. Il grafico qui sotto mostra la progressione nel numero di medaglie totali (blu) e nel numero di ori (giallo) ottenuti dai sudcoreani alle Olimpiadi estive dal 1948 (con l’esclusione del 1980, quando il paese boicottò le Olimpiadi di Mosca). 



Di 263 medaglie totali, la Corea del Sud ne ha vinte 227 a partire dai Giochi di Seul, diventando il paese dominante in alcuni sport, come il tiro con l’arco o, tra gli sport invernali, lo short track. Un discorso a parte va fatto per il taekwondo, l’arte marziale coreana, introdotto come sport dimostrativo proprio a Seul, e poi diventato sport olimpico a pieno titolo nel 2000, dove pure, senza sorpresa, la Corea del Sud detiene il record di medaglie vinte alle Olimpiadi. 
Dopo il 1988, le due Coree hanno preso parte a tutte le edizioni dei Giochi estivi, senza nessun avvicinamento apparente. Soltanto all’inizio degli anni 2000, i due paesi avviarono una politica di distensione che portò qualche risultato, più simbolico che altro, sul piano sportivo. Nelle cerimonie inaugurali dei Giochi di Sydney 2000 e di Atene 2004, ad esempio, pur gareggiando separatamente, la Corea del Nord e la Corea del Sud marciarono insieme con una bandiera disegnata appositamente. Lo stesso avvenne ai Giochi Asiatici del 2002 a Busan, in Corea del Sud, e fu doppiamente significativo, poiché si trattò della prima partecipazione della Corea del Nord ad una manifestazione sportiva importante che si tenne nel sud. Nuovi tentativi sono stati condotti senza successo per le Olimpiadi di Pechino del 2008 (problematiche sotto molti altri punti di vista), quando il clima politico era nuovamente cambiato, raffreddando i pochi tentativi di avvicinamento che erano stati portati avanti dalle due Coree [16, 24]. Da allora la questione non è più stata messa all’ordine del giorno, fino all’attribuzione dei Giochi invernali a Pyeongchang.

Anche se la situazione nella regione dovesse calmarsi o restare confinata alle provocazioni verbali, è facile prevedere, da un lato, che le Olimpiadi del 2018 non daranno alcun contributo né ad un improbabile, alle condizioni attuali, riavvicinamento tra le due Coree, né in generale alla pace in Estremo Oriente. Al contrario, tenere un’edizione delle Olimpiadi in una zona di guerra latente (la guerra di Corea non è mai ufficialmente finita), e potenzialmente guerreggiata – un’edizione che necessariamente non si svolgerà in un’atmosfera di serenità e amicizia tra i popoli, come vuole la retorica olimpica – rischia di portare un ulteriore colpo al movimento olimpico, già minato da numerosi altri problemi, dagli scandali ricorrenti che colpiscono membri del Cio, alla questione del doping, passando per la crisi di vocazioni per l’organizzazione dei Giochi cui il gigantismo delle ultime Olimpiadi ha condotto. 


[6] B. Flyvbjerg, A. Stewart, A. Budzier, The Oxford Olympic study 2016: Cost and cost overrun at the Games, Said Business School / University of Oxford, luglio 2016. 
[9] Ha Woong-Yong, Korean sports in the 1980s and the Seoul Olympic Games of 1988, Journal of Olympic History, 6.2, 1998.
[10] June Struggle, Wikipedia, consultata il 12 agosto 2017.
[11] S. Radchenko, Sports and politics in the Korean peninsula. North Korea and the 1988 Olympics, Woodrow Wilson International Centre for Scholars, 12 dicembre 2011.
[12] B. Bridges, The Seoul Olympics: Economic miracle meets the World, in: J.A. Mangan, M. Dyreson, Olympic Legacies: Intended and Unintended. Political, Cultural, Economic and Educational. London / New York, Routledge, 2010
[14] North Korea to discuss co-hosting 2018 Olympic Games, Daily Mail, 23 giugno 2017.
[16] B. Bridges, The two Koreas and the Beijing Olympics, The Asia-Pacific Journal, 6.3, 2008.
[21] Negotiations for the formation of a unified Korean Team are continuing, but..., Bulletin du Comité International Olympique, 84, 1963.
[23] Kim Mi-suk, R. Streppelhoff, Cold brothers? The relationship between North Korea and the socialist bloc in the Olympic movement. Journal of Olympic History, 19.3, 2011.
[24] Koreas refuse to march together, BBC, 7 agosto 2008.


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