Chi vuole ancora ospitare le Olimpiadi?

Il 13 settembre, nella sessione di Lima, il Cio ha assegnato definitivamente le Olimpiadi del 2024 e del 2028 rispettivamente a Parigi e a Los Angeles. In realtà, i membri del Comitato Olimpico non hanno fatto altro che ratificare la decisione già presa a fine luglio, a seguito dell’accordo tra le due città, a sua volta intervenuto dopo che lo stesso Cio aveva approvato l’assegnazione congiunta delle due edizioni dei Giochi. Nonostante il trionfalismo mostrato dal Cio, che ha addirittura definito la decisione “storica” [1], è difficile considerare l’evento come un successo del movimento olimpico. La scelta, infatti, appare anche e soprattutto come una scelta opportunistica, per non dire un ripiego, dettata dalla necessità di dare continuità alle Olimpiadi, in un contesto in cui la concorrenza per organizzare i Giochi, è il minimo che si possa dire, non è certo accanita. Delle cinque candidature iniziali, Parigi e Los Angeles erano infatti rimaste le uniche due città in lizza per organizzare i Giochi del 2024, dopo le rinunce, nell’ordine, di Amburgo, Roma e Budapest [2]. In questo modo, certo, il Cio ha messo al sicuro i Giochi per i prossimi undici anni, ma si tratta, piuttosto che di una svolta storica, di una decisione presa d’urgenza, in un contesto che tuttavia non era difficile prevedere, e di cui gli osservatori più attenti del movimento olimpico parlavano già da diverso tempo [3, 4]. Anche se tardivamente - il che non stupisce, visto che si tratta di un pachiderma lento e per natura conservatore - il Cio sembra aver preso coscienza del problema, e ha cominciato a cercare soluzioni (ne riparlerò alla fine del post). Certo è che la doppia assegnazione (di cui pure si è già cominciato a vociferare anche per le Olimpiadi invernali del 2026 e del 2030 [5]) non può essere l’unica soluzione per far fronte ad un calo drastico delle candidature olimpiche, sia quantitativo che qualitativo, come quello a cui si è assistito negli ultimi anni. 

L’evoluzione della selezione delle città olimpiche nel tempo

Per capire la portata e le implicazioni della crisi attuale è utile ripercorrere brevemente la storia dell’assegnazione delle Olimpiadi e della politica del Cio al riguardo [6]. Come nella maggior parte degli altri aspetti dell’organizzazione olimpica, agli albori dei Giochi moderni la designazione della sede olimpica avveniva in maniera piuttosto informale e spesso dipendeva semplicemente dalla discrezione dei dirigenti del Cio, in particolare del suo fondatore Pierre de Coubertin. Fino all’inizio degli anni ’30, benché suggellata da voti puramente formali durante le sessioni, la scelta della città ospitante dei Giochi avveniva, in realtà, ‘dietro le quinte’ attraverso accordi e scambi tra le candidate. Così, ad esempio, Berlino ritirò per due volte la propria candidatura poco prima della votazione (per i Giochi del 1908 e del 1912), beneficiando a sua volta del ritiro di Budapest per ottenere i Giochi del 1916, poi annullati a causa della Prima Guerra Mondiale. Ancora più emblematico il caso delle Olimpiadi del 1924, che furono assegnate a Parigi su espressa richiesta di de Coubertin come ultimo omaggio prima delle sue dimissioni dalla presidenza del Cio, con quello che lui stesso definì un “colpo di stato in piena regola” [7]. Non è perciò sorprendente che le prime versioni della Carta olimpica non contengano nessun riferimento alla designazione della città ospitante; solo nella versione del 1920 venne menzionato per la prima volta il fatto che il Cio era sovrano nell’assegnazione dei Giochi ad una città [8], principio rimasto, da allora, immutato.

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, con l’aumento delle candidature, il Cio incominciò infine ad organizzare vere votazioni sulle diverse città candidate per assegnare i Giochi, instaurando la pratica in vigore fino ad oggi. A partire da quel momento, la procedura di selezione è diventata progressivamente più articolata e dettagliata nella Carta olimpica: nel 1962 venne specificato esplicitamente che la scelta della sede spetta ad un’assemblea (tipicamente una sessione plenaria) del Cio [9], nel 1991 venne creata la commissione di valutazione, incaricata di esaminare le candidature prima della decisione della sessione [10], e infine nel 1999 fu definita l’attuale procedura in due fasi, che comprende una preselezione, da parte della commissione di valutazione, delle candidature che saranno effettivamente messe ai voti [11]. I primi Giochi per i quali vi fu una vera competizione risolta con un voto dei membri del Cio (postale, in quell’occasione) furono quelli del 1936 (assegnati nel 1931), per i quali Berlino batté Barcellona per 43 voti a 16; per le Olimpiadi invernali, invece, la prima votazione ebbe luogo alla sessione del 1939 per i Giochi del 1944 (assegnati a Cortina d’Ampezzo e poi annullati a causa della guerra). Prima di allora, la nazione ospitante delle Olimpiadi estive godeva di una sorta di ‘diritto di prelazione’ per organizzare anche quelle invernali, ovviamente se le condizioni climatiche del paese lo consentivano. Con l’eccezione dei Giochi del 1948 (assegnati in fretta nel 1946, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) e di quelli estivi del 1984, tutte le edizioni successive - estive e invernali - hanno visto diverse città candidate sfidarsi nella competizione per l’organizzazione delle Olimpiadi. Il primato fu raggiunto per le Olimpiadi del 1952 (poi assegnate ad Helsinki), quando furono messe ai voti le candidature di ben sette città, di cui cinque statunitensi (Chicago, Detroit, Los Angeles, Minneapolis e Philadelphia). (In seguito, il Cio inserì nella Carta olimpica una clausola secondo cui ogni paese può candidare una sola città per un’edizione delle Olimpiadi). I due grafici qui sotto mostrano il numero di città candidate rispettivamente per le Olimpiadi estive (dal 1936) e invernali (dal 1944); a partire dagli anni 2000 sono indicate non solo le città finaliste (quelle su cui i membri del Cio hanno effettivamente votato, in blu), ma anche le cosiddette città ‘richiedenti’ (in inglese “applicant”), eliminate nelle preselezioni organizzate dal Cio (in verde); non sono state incluse nel computo le città ritiratesi prima della fine del processo di selezione.


L’attuale periodo di crisi è chiaramente visibile in entrambi i grafici; per le Olimpiadi estive, ad esempio, si è passati dalle undici città richiedenti per i Giochi del 2004, alle due per i Giochi del 2024. Un altro periodo di crisi delle candidature è visible tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, con il caso estremo dei Giochi del 1984, che Los Angeles si aggiudicò senza suspence in quanto unica candidata. Vi sono diversi elementi che spiegano questa prima crisi. Il periodo in questione è stato infatti un momento cerniera nel quale si sono incrociati vari fattori distinti e in parte opposti. Da una parte, le Olimpiadi hanno subito pesantemente gli ultimi sussulti della guerra fredda, con i boicottaggi dei Giochi di Mosca 1980 e Los Angeles 1984; dall’altra parte, è nei due decenni in questione che esse si trasformeranno profondamente, assumendo la fisionomia che hanno oggi. Tra gli elementi chiave di questa trasformazione possiamo citare la tendenza al gigantismo, e quindi alla proliferazione dei costi (le olimpiadi di Montreal 1976, ad esempio, si chiusero con un bilancio consuntivo di oltre sette volte superiore a quello preventivo), il peso sempre crescente degli sponsor privati e degli investimenti televisivi nell’organizzazione dei Giochi, le questioni legate alla sicurezza (manifestatesi drammaticamente, è ovvio, soprattutto dopo l’attentato ai Giochi di Monaco del 1972). Un avvenimento emblematico di questo periodo di crisi è rappresentato dalla rinuncia di Denver all’organizzazione dei Giochi del 1976 dopo che le erano già stati attribuiti (saranno trasferiti a Innsbruck). La decisione fu presa in seguito ad un referendum organizzato nel novembre 1972, solo due mesi dopo l’attentato di Monaco, che molto probabilmente ebbe un’influenza importante sull’esito del voto [12, 13]. 

Questo primo periodo di crisi terminò verso la metà degli anni ’80: nel 1986 sei e sette città rispettivamente si presentarono per l’organizzazione dei Giochi estivi ed invernali del 1992. Anche in questo caso, le ragioni della ripresa sono molteplici. La principale è probabilmente in fatto che l’ingresso massiccio degli sponsor privati e l’atteggiamento più disinvolto del Cio nei confronti della commercializzazione delle Olimpiadi avevano fatto dei Giochi un’impresa, almeno all’apparenza, redditizia. Negli anni successivi, ha certamente giocato anche l’entusiasmo per la nuova situazione geopolitica creatasi dopo la caduta del muro di Berlino, e per il fatto che, con l’ingresso della Cina, le Olimpiadi erano finalmente diventate un evento realmente planetario. Dopo una ventina d’anni di relativa stabilità, tuttavia, il numero di pretendenti all’organizzazione dei Giochi ha di nuovo cominciato a calare, fino a raggiungere le proporzioni preoccupanti degli ultimi anni, e di cui è interessante valutare l’entità e le ragioni. 

Gli anni 2010: la crisi di vocazioni per l’organizzazione delle Olimpiadi

L’inizio dell’attuale crisi di vocazioni per l’organizzazione delle Olimpiadi va collocato, mi sembra, alla fine degli anni 2000. Già per le Olimpiadi invernali del prossimo anno (assegnate nel 2011) non era stato necessario stabilire una shortlist, dal momento che le candidature ricevute dal Cio erano solo tre (oltre a Pyeongchang, Annecy e Monaco di Baviera). Se è vero che una candidatura per i Giochi invernali è più complessa e non alla portata di tutte le nazioni, si trattò comunque di un drastico ridimensionamento rispetto alle sette candidature ricevute per le due edizioni precedenti. E’ assai probabile che alla base di questa riduzione vi sia stata in parte una maggiore severità del Cio nei confronti di candidature, per così dire ‘folkloristiche’, senza alcuna possibilità di successo (come quella di Andorra per il 2010 o della città georgiana di Borjomi per il 2014), e soprattutto l’attenzione crescente portata dalle autorità politiche delle città e dei paesi coinvolti alle implicazioni, in primo luogo finanziare, legate all’organizzazione dei Giochi. La lievitazione dei costi è stata ad esempio la ragione addotta dal comitato olimpico norvegese per ritirare, prima ancora di presentarla ufficialmente, la candidatura di Tromsø per le stesse Olimpiadi del 2018 [14]. A partire da quel momento, e per tutte le edizioni successive, il numero delle città che hanno ritirato la propria candidatura ‘in corsa’ in seguito a pressioni esterne è andato aumentando, sommandosi a un calo generale delle candidature. La tabella qui sotto riporta, per le ultime cinque Olimpiadi assegnate (2018-2028), le città effettivamente candidate, le città non entrate a far parte della shortlist e le città che hanno ritirato la loro candidatura dopo averla presentata.


Il primo dato che si può ricavare dalla tabella è che, nel periodo in questione, ben il 40% delle candidature presentate (8 su 20) è stato ritirato prima della fine del processo. A parte nel caso di Lviv, il cui ritiro è stato concordato con il Cio a causa del perdurare della guerra in Ucraina [15], in tutti i casi le città candidate che hanno rinunciato lo hanno fatto per il venir meno dell’appoggio delle autorità nazionali o locali (obbligatoriamente richiesto dal Cio) o dell’opinione pubblica. Una lettura più approfondita, qualitativa, della tabella in questione, poi, mostra che la crisi attuale avrebbe già potuto essere diagnosticata anni fa. Prendiamo l’esempio delle Olimpiadi del 2020 (assegnate a Tokyo). In quel caso, almeno due delle cinque città che hanno portato a termine la candidatura (le tre ammesse alla fase finale e le due escluse dalla shortlist) danno l’impressione di essersi candidate quasi ‘per inerzia’: Istanbul era alla quinta candidatura dal 1993, e Madrid alla terza candidatura consecutiva. Tanto è vero che entrambe le città hanno poi rinunciato a ricandidarsi per il 2024 [16]. Va poi notato che tre delle cinque candidature in questione provenivano da paesi quantomeno problematici dal punto di vista delle garanzie democratiche e dei diritti umani (Azerbaigian, Qatar e Turchia), una questione che è da sempre una spina nel fianco del Cio. Lo stesso si è ripetuto due anni dopo per le Olimpiadi invernali del 2022, quando si è venuta a creare la situazione ancora più imbarazzante in cui entrambe le candidate giunte alla fase finale erano critiche da questo punto di vista. In quel caso, i membri del Cio hanno preferito la via della tranquillità scegliendo Pechino (pur ricordando certamente le controversie che hanno accompagnato le Olimpiadi del 2008 [17]), piuttosto che l’incognita rappresentata dal Kazakistan. Al contrario, tutte le candidature che sono state ritirate provenivano da paesi con governi democratici e in cui la libertà di stampa e di parola sono garantite (con le parziali eccezioni dell’Ucraina, il cui ritiro fa storia a sé, e dell’Ungheria, dove tuttavia alla base del ritiro della candidatura di Budapest vi è la mobilitazione dell’opposizione democratica). L’insegnamento che se ne può trarre è che per un paese democratico diventa sempre più difficile far accettare all’opinione pubblica l’idea di un investimento quasi decennale e difficile da quantificare. Come dice, un po’ brutalmente ma giustamente, il giornalista del Guardian Andy Bull, “In occidente, almeno, sembra che nessuno voglia più ospitare [le Olimpiadi]” [3].

Le ragioni di una crisi

Come ho osservato all’inizio del post, perciò, i segnali di una crisi erano già manifesti almeno fin dall’inizio degli anni 2010, e avrebbero dovuto allarmare il Cio, spingendolo a cercare contromisure, già da tempo. Alla luce di quanto detto, le ragioni per l’attuale crisi di vocazioni non sono difficili da identificare: da una parte vi è l’identificazione delle Olimpiadi come una macchina colossale, costosa, il cui lascito per la città che le ospita è trascurabile, se non nocivo; dall’altra vi è il fatto che il sistema di attribuzione dei Giochi e di distribuzione dei costi e benefici di ospitarli elaborato dal Cio nel corso del XX secolo non è più sostenibile. 

Per quanto riguarda il primo punto, anche se la retorica delle istanze olimpiche continua a presentare i Giochi come una grande opportunità per la città e il paese che li ospitano, l’opinione pubblica dei paesi coinvolti vede l’impresa olimpica con sempre più sospetto. Pur nell’euforia per l’ottenimento dei Giochi, ad esempio, sia in Francia che negli Usa c’è chi ha cominciato ad interrogarsi sull’impatto finanziario delle Olimpiadi a venire e sulla gestione dei fondi, soprattutto pubblici [18, 19]. Più in generale, le Olimpiadi sono viste come un’impresa mastodontica, finanziariamente votata al fallimento, che riempie le città di cantieri per gli anni che precedono i Giochi, e si lascia dietro, dopo, opere faraoniche che rimangono inutilizzate. Alla fine di ogni Olimpiade, i giornali e i siti Internet pullulano di articoli che calcolano le cifre astronomiche spese, e soprattutto di quanto tutti i budget iniziali siano esplosi, o di reportage fotografici sugli impianti vuoti e ridotti in condizioni deplorevoli. A ciò si aggiunga il danno provocato alla reputazione del Cio e dei Giochi Olimpici in generale dagli scandali che regolarmente vengono alla luce sulla corruzione dei suoi membri (l’ultimo in data è quello relativo all’assegnazione dei Giochi di Rio [20]), sui sistemi più o meno organizzati e ‘istituzionali’ di doping, etc. Se qualche anno fa questi elementi potevano essere visti come fastidiosi, ma tutto sommato accettabili, con l’esplosione della crisi finanziaria alla fine degli anni 2000, non è più possibile per un governo o per una città far accettare ai propri cittadini l’idea di un investimento che, se dà frutti, li dà a lungo termine e sono difficili da quantificare. Ovviamente, tutti quelli citati sono elementi oggettivi, che tuttavia diventano, a loro volta, un pretesto per zittire in partenza qualsiasi tentativo di riflessione seria sulla questione. Il costo di un’Olimpiade, ad esempio, e soprattutto il bilancio tra costi e benefici, sono quasi impossibili da calcolare, tanti sono i parametri che possono essere presi in considerazione o omessi. E’ il motivo per cui ogni Olimpiade appare come un investimento grandioso e un successo per gli uni, e come un disastro finanziario, sociale ed ecologico per gli altri. Gli studi più seri realizzati sulla questione, tuttavia, mostrano chiaramente che un superamento anche significativo del budget iniziale è la regola per tutti i Giochi Olimpici [21, 22], con un superamento medio del 176% per i Giochi estivi, e del 142% per quelli invernali, secondo lo studio realizzato dagli economisti dell’Università di Oxford [22]. La ragione principale è che l’organizzazione di un mega-evento implica spese, come quelle legate alla sicurezza, la cui entità è difficile da valutare con un decennio di anticipo, il periodo di preparazione normale per le Olimpiadi. Un’altra ragione è strettamente legata al modo di assegnazione previsto dal Cio: trattandosi di fatto di una gara, è logico che ogni città candidata cerchi di presentare un progetto che sia il più attraente possibile, anche dal punto di vista finanziario, il che corrisponde, in molti casi, a sottostimare, o comunque a ridurre al minimo, le previsioni di spesa. Tutto questo, è chiaro, fa di ogni Olimpiade un’impresa necessariamente in perdita o perlomeno ad alto rischio. Come sottolineano in uno studio gli economisti francesi Emmanuel Frot e Julien Gooris, quindi, “una candidatura onesta dovrebbe riconoscere che […] se il guadagno economico non è sufficiente a giustificare l’organizzazione delle Olimpiadi, è necessario prendere in considerazione altri tipi di impatto: beneficio sociale, benessere collettivo, fierezza nazionale, etc., altrettanti elementi intangibili, ben più soggettivi, che non devono tuttavia essere trascurati” [23]. Evidentemente, tutti questi elementi ‘intangibili’ non costituiscono più un elemento sufficiente per convincere gran parte dei governanti e delle opinioni pubbliche che organizzare i Giochi è conveniente. 
L’altro nodo del problema è costituito, come ho detto, dal modo di attribuzione dei Giochi previsto dal Cio. La formula impiegata nella Carta olimpica è emblematica al riguardo, poiché l’articolo 32.2 afferma che “l’onore e la responsabilità di ospitare i Giochi Olimpici sono affidati dal Cio a una città, che è eletta città ospitante dei Giochi Olimpici” [24]. Il Cio si considera quindi, legittimamente, come il proprietario dei Giochi Olimpici, con cui onora una tra le città che desiderano organizzarli. La contropartita di questo onore è che la città ospitante si assuma l’intera responsabilità, compresa quella finanziaria, per l’organizzazione [24]. Il Cio, è vero, redistribuisce parte dei profitti diretti e indiretti provenienti dai Giochi (diritti televisivi, marketing, biglietti, etc.), ma solo una piccola parte vanno alle città organizzatrici. I comitati organizzatori dei Giochi di Soči e Rio, ad esempio, hanno ricevuto globalmente 2,3 milioni di dollari, che corrispondono a poco più del 30% dei profitti totali del Cio nel quadriennio 2013-2016 (7,798 milioni di dollari) [25]. Ogni Olimpiade viene dunque organizzata sulla base di un contratto fortemente squilibrato a favore del Cio, e non stupisce che, in periodo di crisi, i paesi siano sempre più restii ad assumersi una tale responsabilità. 

La (timida) reazione del Cio

Trovare una soluzione al problema non è semplice. Diversi economisti sostengono che la soluzione più razionale consisterebbe nell’assegnare alle Olimpiadi una sede permanente, risolvendo così gran parte dei problemi legati alla costruzione e all’adeguamento delle infrastrutture, ed eliminando contemporaneamente i rischi di corruzione legati all’attribuzione dei Giochi [26]. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi assai irrealistica, da una parte perché il Cio difficilmente rinuncerà alla possibilità di avere l’ultima parola sulla scelta della città ospitante, uno dei principali privilegi di cui godono i suoi membri; dall’altra perché il carattere itinerante è un elemento costitutivo delle Olimpiadi fin dai loro albori (de Coubertin stesso lo considerava un principio inderogabile [27]), e sarebbe impossibile renderle stanziali senza snaturarle. Senza contare la difficoltà di trovare una città che volesse accollarsi una tale responsabilità. Anche il Cio, comunque, si è reso conto, seppur tardivamente, che l’attuale sistema non è più sostenibile, almeno per quanto riguarda l’assegnazione dei Giochi, e ha incominciato ad adottare misure correttive che, se non cambiano i principi fondamentali della procedura (il Cio, in particolare, conserva il diritto di dare il giudizio finale nella selezione), hanno perlomeno lo scopo di rendere il processo più affidabile e, almeno all’apparenza, trasparente. La procedura di selezione è il primo dei quattordici punti della cosiddetta Agenda 2020, un documento approvato nel dicembre 2014 che contiene raccomandazioni sull’evoluzione futura del movimento olimpico [28], e si sviluppa intorno a tre principi: dare alle candidature il carattere di ‘inviti’, fornire una valutazione più precisa dei rischi e delle opportunità di ogni candidatura e ridurne il costo . In pratica, secondo il primo principio il Cio dovrebbe assumere un ruolo più attivo nel suscitare candidature, contattando tempestivamente le città potenzialmente interessate, e offrendo loro assistenza nella costituzione del dossier. Viene inoltre prevista la possibilità di avere Olimpiadi più ‘distribuite’, con le gare organizzate in più città, o addirittura in nazioni diverse. I primi risultati del nuovo corso dovrebbero già essere visibili per l’assegnazione delle Olimpiadi invernali del 2026, prevista nel 2019. In luglio il Cio ha adottato una nuova procedura, nella quale mette in pratica i principi ricordati sopra [29]. Per il momento, le tre candidature più credibili sono quelle di Innsbruck, che sarà comunque sottoposta a un referendum [30], Sion e Calgary, che aspettano ancora di ricevere l’appoggio dei rispettivi poteri politici [31, 32]. Servirà comunque qualche anno per capire se le riforme minimaliste proposte dal Cio saranno sufficienti a garantire la perennità dei Giochi Olimpici o se serviranno cambiamenti ancora più radicali.

[2] Bids for the 2024 and 2028 Summer Olympics, Wikipedia, consultato il 19 settembre 2017.
[3] A. Bull, Revealed: the biggest threat to the future of the Olympic Games, The Guardian, 27 luglio 2016.
[6] Per una rassegna più dettagliata, si veda A. Lunzenfichter, Athènes 1896… Rio 2016. Choix épiques des villes olympiques, Anglet, Atlantica, 2010.
[7] P. de Coubertin, Mémoires olympiques [1931], cap. XVIII, Revue Olympique, 125-126, marzo-aprile 1978 [versione italiana: Memorie olimpiche, Milano, Mondadori, 2003].
[8] Carta Olimpica, versione del 1920, “Règlements relatifs à la célébration des Olympiades”.
[9] Carta Olimpica, versione del 1962, art. 51.
[10] Carta Olimpica, versione del 16 giugno 1991, addendum all’art. 37.
[11] Carta Olimpica, versione del 12 dicembre 1999, addendum 5 all’art. 37.
[12] Denver, Olympic Review, 60-61, novembre-dicembre 1972.
[14] Tromso withdraws from 2018 winter bid race, GamesBids, 6 ottobre 2008.
[15] IOC statement on 2022 bidding process, Cio, 30 giugno 2014.
[16] Last-minute 2024 Olympic bids we may see - or not, GamesBids, 11 settembre 2015.
[17] Si veda, tra gli altri, Olimpiadi e libertà, supplemento a MicroMega, 4/2008.
[18] Y. Bouchez, P. Jacqué, Jeux olympiques de Paris en 2024 : une bonne affaire ?, Le Monde, 11 settembre 2017.
[22] B. Flyvbjerg, A. Stewart, A. Budzier, The Oxford Olympic study 2016: Cost and cost overrun at the Games, Said Business School / University of Oxford, luglio 2016. 
[24] Carta Olimpica, versione del 2 agosto 2016
[27] P. de Coubertin, Mémoires olympiques [1931], cap. I, Revue Olympique, 101-102, marzo-aprile 1976 [versione italiana: Memorie olimpiche, Milano, Mondadori, 2003].

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